Domanda di aiuto: come, quando, perché
“Ciò che viene compromesso è il senso del proprio benessere emotivo. All’improvviso si percepisce che qualcosa non va, si avverte disagio, si soffre spesso senza comprendere il motivo”.
Non è facile individuare le componenti che sostengono la motivazione alla richiesta di aiuto psicologico. Generalmente esiste un margine di tempo abbastanza importante tra l’emergenza di un certo disagio e il momento in cui il paziente decide di apprestarsi ad iniziare un percorso psicologico.
Esiste tuttora una certa resistenza socio-culturale nell’ammettere di avere bisogno di aiuto, che però si è ridimensionato rispetto al passato.
Riconoscere di “avere bisogno di aiuto e sostegno”comporta spesso l’elaborazione di uno stato di fragilità personale: il soggetto percepisce di non riuscire a farcela con le proprie forze, talvolta si vergogna e sente in colpa perché ritiene di non avere abbastanza risorse nell’affrontare il proprio disagio psicologico.
Da qui, di conseguenza, ne derivano spesso stati di ansia e depressione, senso di inadeguatezza, rabbia.
Talvolta può accadere che la persona arrivi al bisogno di chiedere aiuto sull’onda di un momento critico della propria vita: una crisi relazionale, l’insorgenza di un sintomo, difficoltà lavorative o altro. Generalmente, in tali casi, la richiesta volta al professionista è di essere liberati quanto prima dalla “causa del disturbo” per poter riprendere in mano la propria vita.
In tutto ciò, una parte significativa svolta dal terapeuta riguarda la riformulazione della richiesta di aiuto, laddove diviene importante svelare insieme al paziente gli aspetti personali apparentemente privi di una reale focalizzazione sul problema e non sempre direttamente evidenti circa il disagio riportato in terapia.
La chiarezza di tutto quello che un trattamento implica risulta importante per stabilire “la compliance”, ovvero l’iniziale adesione del paziente al percorso psicologico.
In definitiva, il momento dell’incontro con il paziente dovrebbe essere letto e vissuto come uno spazio di interazione e accoglienza tra chi è portatore del disagio e chi se lo prende in carico. La dimensione affettivo-relazionale rappresenta uno dei fattori significativi che andranno ad interferire sulla fedeltà del paziente al trattamento terapeutico e sugli obiettivi che lo stesso intende raggiungere.
Pertanto si tratta di sottolineare l’importanza dell’alleanza terapeutica nella definizione della buona riuscita di un percorso psicologico.
Psicologo Psicoterapeuta Dott.ssa Artuso Silvia
Non è facile individuare le componenti che sostengono la motivazione alla richiesta di aiuto psicologico. Generalmente esiste un margine di tempo abbastanza importante tra l’emergenza di un certo disagio e il momento in cui il paziente decide di apprestarsi ad iniziare un percorso psicologico.
Esiste tuttora una certa resistenza socio-culturale nell’ammettere di avere bisogno di aiuto, che però si è ridimensionato rispetto al passato.
Riconoscere di “avere bisogno di aiuto e sostegno”comporta spesso l’elaborazione di uno stato di fragilità personale: il soggetto percepisce di non riuscire a farcela con le proprie forze, talvolta si vergogna e sente in colpa perché ritiene di non avere abbastanza risorse nell’affrontare il proprio disagio psicologico.
Da qui, di conseguenza, ne derivano spesso stati di ansia e depressione, senso di inadeguatezza, rabbia.
Talvolta può accadere che la persona arrivi al bisogno di chiedere aiuto sull’onda di un momento critico della propria vita: una crisi relazionale, l’insorgenza di un sintomo, difficoltà lavorative o altro. Generalmente, in tali casi, la richiesta volta al professionista è di essere liberati quanto prima dalla “causa del disturbo” per poter riprendere in mano la propria vita.
In tutto ciò, una parte significativa svolta dal terapeuta riguarda la riformulazione della richiesta di aiuto, laddove diviene importante svelare insieme al paziente gli aspetti personali apparentemente privi di una reale focalizzazione sul problema e non sempre direttamente evidenti circa il disagio riportato in terapia.
La chiarezza di tutto quello che un trattamento implica risulta importante per stabilire “la compliance”, ovvero l’iniziale adesione del paziente al percorso psicologico.
In definitiva, il momento dell’incontro con il paziente dovrebbe essere letto e vissuto come uno spazio di interazione e accoglienza tra chi è portatore del disagio e chi se lo prende in carico. La dimensione affettivo-relazionale rappresenta uno dei fattori significativi che andranno ad interferire sulla fedeltà del paziente al trattamento terapeutico e sugli obiettivi che lo stesso intende raggiungere.
Pertanto si tratta di sottolineare l’importanza dell’alleanza terapeutica nella definizione della buona riuscita di un percorso psicologico.
Psicologo Psicoterapeuta Dott.ssa Artuso Silvia
LA MOTIVAZIONE AL TRATTAMENTO IN PSICOTERAPIA
“Sembra essere impossibile fino a quando non viene fatto” (Nelson Mandela)
Da numerosi studi è stato riscontrato come il cambiamento risulti essere un fattore di primaria importanza nell’ambito della cura alla persona.
Quando una persona si rivolge ad uno psicoterapeuta per i propri problemi, mostra una certa disponibilità al cambiamento. Questo risulta generalmente influenzato dall’ansia e dal timore nei confronti del cambiamento stesso e dal grado di rigidità delle proprie convinzioni e abitudini di pensiero.
Inoltre, persone che chiedono aiuto per un certo problema mostrano diversa disponibilità a modificare alcuni personali pensieri ed atteggiamenti rispetto a chi chiede aiuto per altre tipologie di disturbi. Ad esempio, chi chiede di essere aiutato per un disturbo di panico dimostra, in genere, una motivazione più alta al cambiamento rispetto a coloro che chiedono aiuto per il trattamento di una qualche forma di dipendenza. Ciò che principalmente determina tali differenze nell’approccio al trattamento sta nel fatto che alcuni disturbi hanno maggiori caratteristiche di “egosintonia”, ovvero che alcune forme di disagio rispetto ad altre non vengono percepite come “corpi estranei” dalla persona stessa, come problemi da superare, come condizioni invalidanti. Vengono, al contrario, visti come “ego sintonici”, cioè parti di sé e come naturale conseguenza del proprio modo di essere (ad es. nei Disturbi Alimentari). In casi simili, spesso la persona non entra in terapia per risolvere il proprio problema, quanto piuttosto per soddisfare le pressanti richieste dei familiari.
In altri tipi di disturbi, invece, è il paziente stesso a decidere di intraprendere un percorso di cura ma, talvolta, inizialmente non ha una motivazione centrata sulla soluzione del problema: la richiesta rivolta al terapeuta è di alleviare la propria sofferenza psicologica.
Ma come funziona un percorso volto ad un processo di modificazione nel paziente e da che cosa dovremmo partire per attuarlo?
Dalla mia esperienza passata e presente riscontro che il fattore predittivo più importante per l’esito positivo della terapia è rappresentato dalla motivazione al cambiamento da parte del paziente. Nella media delle terapie medio-brevi, quali ad esempio, la terapia cognitivo-comportamentale, è più probabile che i risultati siano rapidi e a lungo termine in quei pazienti che si dimostrano impegnati con il terapeuta a raggiungere determinati obiettivi prefissati e concordati.
Al fine del raggiungimento di tali obiettivi, è indispensabile possedere innanzitutto un buon livello di motivazione: con questo termine, intendiamo descrivere uno stato interno che attiva, dirige e mantiene nel tempo il comportamento di un individuo.
A tal proposito, è utile identificare due principali tipi di motivazione, cioè quella intrinseca e quella estrinseca.
Con la prima, si intende quella spinta ad attivare determinate risorse interiori generata da un insieme di caratteristiche ed esperienze personali dell’individuo (es. impegnarsi in un’attività perché la riteniamo stimolante e gratificante in se).
La motivazione estrinseca, invece, si determina in una certa situazione in base a delle spinte esterne alla persona (es. impegnarsi in una certa attività per motivi diversi dalla cosa in se).
“La motivazione al cambiamento è una spinta che dipende dal grado in cui la persona riesce ad accorgersi degli aspetti negativi della propria condizione attuale”
articolo scritto da Psicologo Psicoterapeuta Dott.ssa Artuso Silvia il 26/02/2018
Da numerosi studi è stato riscontrato come il cambiamento risulti essere un fattore di primaria importanza nell’ambito della cura alla persona.
Quando una persona si rivolge ad uno psicoterapeuta per i propri problemi, mostra una certa disponibilità al cambiamento. Questo risulta generalmente influenzato dall’ansia e dal timore nei confronti del cambiamento stesso e dal grado di rigidità delle proprie convinzioni e abitudini di pensiero.
Inoltre, persone che chiedono aiuto per un certo problema mostrano diversa disponibilità a modificare alcuni personali pensieri ed atteggiamenti rispetto a chi chiede aiuto per altre tipologie di disturbi. Ad esempio, chi chiede di essere aiutato per un disturbo di panico dimostra, in genere, una motivazione più alta al cambiamento rispetto a coloro che chiedono aiuto per il trattamento di una qualche forma di dipendenza. Ciò che principalmente determina tali differenze nell’approccio al trattamento sta nel fatto che alcuni disturbi hanno maggiori caratteristiche di “egosintonia”, ovvero che alcune forme di disagio rispetto ad altre non vengono percepite come “corpi estranei” dalla persona stessa, come problemi da superare, come condizioni invalidanti. Vengono, al contrario, visti come “ego sintonici”, cioè parti di sé e come naturale conseguenza del proprio modo di essere (ad es. nei Disturbi Alimentari). In casi simili, spesso la persona non entra in terapia per risolvere il proprio problema, quanto piuttosto per soddisfare le pressanti richieste dei familiari.
In altri tipi di disturbi, invece, è il paziente stesso a decidere di intraprendere un percorso di cura ma, talvolta, inizialmente non ha una motivazione centrata sulla soluzione del problema: la richiesta rivolta al terapeuta è di alleviare la propria sofferenza psicologica.
Ma come funziona un percorso volto ad un processo di modificazione nel paziente e da che cosa dovremmo partire per attuarlo?
Dalla mia esperienza passata e presente riscontro che il fattore predittivo più importante per l’esito positivo della terapia è rappresentato dalla motivazione al cambiamento da parte del paziente. Nella media delle terapie medio-brevi, quali ad esempio, la terapia cognitivo-comportamentale, è più probabile che i risultati siano rapidi e a lungo termine in quei pazienti che si dimostrano impegnati con il terapeuta a raggiungere determinati obiettivi prefissati e concordati.
Al fine del raggiungimento di tali obiettivi, è indispensabile possedere innanzitutto un buon livello di motivazione: con questo termine, intendiamo descrivere uno stato interno che attiva, dirige e mantiene nel tempo il comportamento di un individuo.
A tal proposito, è utile identificare due principali tipi di motivazione, cioè quella intrinseca e quella estrinseca.
Con la prima, si intende quella spinta ad attivare determinate risorse interiori generata da un insieme di caratteristiche ed esperienze personali dell’individuo (es. impegnarsi in un’attività perché la riteniamo stimolante e gratificante in se).
La motivazione estrinseca, invece, si determina in una certa situazione in base a delle spinte esterne alla persona (es. impegnarsi in una certa attività per motivi diversi dalla cosa in se).
“La motivazione al cambiamento è una spinta che dipende dal grado in cui la persona riesce ad accorgersi degli aspetti negativi della propria condizione attuale”
articolo scritto da Psicologo Psicoterapeuta Dott.ssa Artuso Silvia il 26/02/2018
LA COPPIA IN DIFFICOLTÀ PUÒ TORNARE INSIEME?
Attraverso la terapia di coppia il terapeuta può osservare in vivo le dinamiche emotive e comunicative di entrambi i membri e cercare di risolvere eventuali conflitti emersi nel tempo.
La forza primaria del percorso di coppia risiede nella capacità di accedere alle modalità in cui, in passato, si sono intrecciati i vissuti di due diverse personalità, portatrici ciascuna rispettivamente del proprio bagaglio di esperienze educative, culturali, relazionali oltre che di specifici modelli di attaccamento con le proprie figure genitoriali.
Talvolta, piuttosto che tentare di sciogliere dei “vecchi nodi”appartenenti al passato di ciascuno dei patner, è preferibile creare uno spazio di ascolto e di relazione che a sua tempo risulti funzionale per la coppia. Nel raggiungimento di questo obiettivo, diventa significativo far emergere all’interno della coppia la consapevolezza delle reciproche difficoltà relazionali e comunicative, oltre ad aiutare i membri a identificare gli schemi disfunzionali di pensiero, che risultano spesso terreno fertile alla nascita di incomprensioni caratteriali, scontri o atteggiamenti di chiusura emotiva.
La psicoeducazione di coppia dovrebbe fornire ai patner, ove e qualora ne fossero sprovvisti, informazioni basilari sulle caratteristiche di una relazione sana e ben funzionante.
Per il terapeuta ciò significa insegnare ad affrontare gli ostacoli e i problemi di ordine pratico che possono bloccare o distorcere la comunicazione coniugale, in primo luogo lavorando sulle emozioni e sugli errori di ragionamento che ciascun membro riporta all’interno del setting terapeutico.
Vi è poi la psicoeducazione alla comunicazione, il cui scopo è quello di aiutare la coppia ad accrescere l’empatia reciproca, nonché la capacità di sentirsi in sintonia con il coniuge nei vari aspetti inerenti la vita a due (ascolto e comprensione, fiducia e rispetto, condivisione di idee e sensazioni, intimità sessuale, ecc.). Infatti credo che, durante il percorso di coppia, un momento di grande maturazione sia legato alla capacità di guardare l’altro al di là di se stesso.
“Imparare a guardare l’altro nella coppia significa imparare a vedere se stessi”(Altomonte, 2016).
“Ogni familiare diventa risorsa per la crescita personale di se e dell’altro e, dall’altra parte, la crescita personale di ciascuno è obiettivo per se e per l’altro (Bellantoni, 2010).
13 Settembre 2017
Psicologo Psicoterapeuta Dott.ssa Artuso Silvia
La forza primaria del percorso di coppia risiede nella capacità di accedere alle modalità in cui, in passato, si sono intrecciati i vissuti di due diverse personalità, portatrici ciascuna rispettivamente del proprio bagaglio di esperienze educative, culturali, relazionali oltre che di specifici modelli di attaccamento con le proprie figure genitoriali.
Talvolta, piuttosto che tentare di sciogliere dei “vecchi nodi”appartenenti al passato di ciascuno dei patner, è preferibile creare uno spazio di ascolto e di relazione che a sua tempo risulti funzionale per la coppia. Nel raggiungimento di questo obiettivo, diventa significativo far emergere all’interno della coppia la consapevolezza delle reciproche difficoltà relazionali e comunicative, oltre ad aiutare i membri a identificare gli schemi disfunzionali di pensiero, che risultano spesso terreno fertile alla nascita di incomprensioni caratteriali, scontri o atteggiamenti di chiusura emotiva.
La psicoeducazione di coppia dovrebbe fornire ai patner, ove e qualora ne fossero sprovvisti, informazioni basilari sulle caratteristiche di una relazione sana e ben funzionante.
Per il terapeuta ciò significa insegnare ad affrontare gli ostacoli e i problemi di ordine pratico che possono bloccare o distorcere la comunicazione coniugale, in primo luogo lavorando sulle emozioni e sugli errori di ragionamento che ciascun membro riporta all’interno del setting terapeutico.
Vi è poi la psicoeducazione alla comunicazione, il cui scopo è quello di aiutare la coppia ad accrescere l’empatia reciproca, nonché la capacità di sentirsi in sintonia con il coniuge nei vari aspetti inerenti la vita a due (ascolto e comprensione, fiducia e rispetto, condivisione di idee e sensazioni, intimità sessuale, ecc.). Infatti credo che, durante il percorso di coppia, un momento di grande maturazione sia legato alla capacità di guardare l’altro al di là di se stesso.
“Imparare a guardare l’altro nella coppia significa imparare a vedere se stessi”(Altomonte, 2016).
“Ogni familiare diventa risorsa per la crescita personale di se e dell’altro e, dall’altra parte, la crescita personale di ciascuno è obiettivo per se e per l’altro (Bellantoni, 2010).
13 Settembre 2017
Psicologo Psicoterapeuta Dott.ssa Artuso Silvia
DEPRESSIONE: COME CAPIRLA E AFFRONTARLa
La depressione è caratterizzata da un cambiamento nel modo di pensare, sentire e agire da parte delle persona che ne soffre. Ad esempio, uno studente bravo potrebbe arrivare a convincersi di non essere in grado di terminare gli studi; una madre affettuosa può cominciare a trascurare i figli oppure un intraprendente lavoratore perdere gran parte degli interessi verso la propria attività.
In quanto classificata come “Disturbo della sfera affettiva”, la caratteristica più evidente della depressione è l’abbassamento dell’umore accompagnato da atteggiamenti solitari, apatici, demotivati.
Il depresso tende ad essere pessimista riguardo a se stesso, al mondo circostante e verso il proprio futuro (la cosiddetta “triade cognitiva” di A. Beck, uno dei più importanti studiosi della depressione).
Infatti negli ultimi trent’anni vari ricercatori hanno scoperto che l’individuo sofferente di questa malattia manifesta una spiccata tendenza ad interpretare in modo inadeguato e disfunzionale molte situazioni che lo circondano e che il suo modo di pensare influenza lo stato d’animo in modo significativo. Pertanto chi è depresso avverte tristezza, malinconia ed ansia come stati emozionali ai quali spesso si associano sintomi fisici (disturbi psicosomatici).
Da ciò ne deriva che un metodo efficace per aiutare la persona con tale quadro sintomatico consiste nel portarla a “correggere” i suoi errori cognitivi verso un nuovo modo di pensare del tipo “qui ed ora”, anziché focalizzare l’attenzione verso il proprio passato e di conseguenza sull’umore depresso.
A tal proposito, la psicoterapia cognitivo-comportamentale considera che i pensieri e le convinzioni negative su di sé, sul mondo e sul futuro abbiano un’influenza significativa sia sull’esordio che sul mantenimento dei sintomi. Intervenire efficacemente sul disagio vuol dire principalmente agire sul funzionamento mentale che guida l’interpretazione degli eventi personali, oltre che sulla reazione dell’individuo ad essi.
Nel corso del trattamento, che generalmente è di tipo breve e focalizzato sui sintomi attuali, il paziente viene guidato a riconoscere la sopra citata triade cognitiva della depressione attraverso 3 fasi principali:
In quanto classificata come “Disturbo della sfera affettiva”, la caratteristica più evidente della depressione è l’abbassamento dell’umore accompagnato da atteggiamenti solitari, apatici, demotivati.
Il depresso tende ad essere pessimista riguardo a se stesso, al mondo circostante e verso il proprio futuro (la cosiddetta “triade cognitiva” di A. Beck, uno dei più importanti studiosi della depressione).
Infatti negli ultimi trent’anni vari ricercatori hanno scoperto che l’individuo sofferente di questa malattia manifesta una spiccata tendenza ad interpretare in modo inadeguato e disfunzionale molte situazioni che lo circondano e che il suo modo di pensare influenza lo stato d’animo in modo significativo. Pertanto chi è depresso avverte tristezza, malinconia ed ansia come stati emozionali ai quali spesso si associano sintomi fisici (disturbi psicosomatici).
Da ciò ne deriva che un metodo efficace per aiutare la persona con tale quadro sintomatico consiste nel portarla a “correggere” i suoi errori cognitivi verso un nuovo modo di pensare del tipo “qui ed ora”, anziché focalizzare l’attenzione verso il proprio passato e di conseguenza sull’umore depresso.
A tal proposito, la psicoterapia cognitivo-comportamentale considera che i pensieri e le convinzioni negative su di sé, sul mondo e sul futuro abbiano un’influenza significativa sia sull’esordio che sul mantenimento dei sintomi. Intervenire efficacemente sul disagio vuol dire principalmente agire sul funzionamento mentale che guida l’interpretazione degli eventi personali, oltre che sulla reazione dell’individuo ad essi.
Nel corso del trattamento, che generalmente è di tipo breve e focalizzato sui sintomi attuali, il paziente viene guidato a riconoscere la sopra citata triade cognitiva della depressione attraverso 3 fasi principali:
- Valutazione del quadro sintomatico e presa di accordo circa il contratto terapeutico (strategie e tecniche previste dal trattamento, concordate tra terapeuta e paziente);
- Esplorazione circa l’esordio e l’organizzazione del problema;
- Insegnamento di strategie atte a neutralizzare i pensieri automatici negativi e le credenze disfunzionali (schemi), modificando di conseguenza anche lo stato d’animo e il comportamento conseguenti.
“Se dovessi iniziare a sentirti depresso, prova a ripensare a ciò che può aver scatenato questo stato d’animo. Potrebbe trattarsi di pensieri negativi riguardanti qualcosa che è accaduto di recente oppure nel tuo passato”.
17 Settembre 2015
Psicologa- Psicoterapeuta Dott.ssa Artuso Silvia
ANSIA E PAURA: DUE EMOZIONI A CONFRONTO
L’ansia è uno degli stati emozionali più intensi, pervasivi e conosciuti della società attuale. Spesso viene scambiata con la paura ma ciò che permette di distinguere i due termini è che quest’ultima è di solito rivolta ad un oggetto specifico, è più intensa ed episodica.
Negli stati d’ansia, al contrario, è spesso difficile identificare la causa della tensione anticipatoria e del disagio generalizzato per cui questi sentimenti possono essere sconcertanti per chi li vive.
Le relazioni tra ansia e paura possono essere complesse; l’ansia segue spesso la paura ( ad esempio di poter essere nuovamente colti da un attacco di panico), e le esperienze in cui si è sperimentata l’ansia possono a loro volta generare “la paura di un ritorno dell’ansia”.
Esistono però delle differenze soggettive nella predisposizione a provare questa emozione, in quanto nella sua percezione sono coinvolte diverse componenti biologiche, personali, educative e sociali. Il paziente ansioso che affronta una situazione potenzialmente minacciosa compie un “grossolano esame della realtà” temuta: dirige il focus dell’attenzione verso di essa, aumenta la sua sensibilità verso la persona e/o oggetto ansiogeno portandolo ad interpretare la realtà con degli “errori di ragionamento” che il
più delle volte sono responsabili della formazione degli schemi rigidi di pensiero. Inoltre, di conseguenza, attua delle strategie comportamentali apparentemente risolutorie, quali la fuga e l’evitamento.
Vi è pure un nesso significativo tra il nostro stato d’animo e il modo in cui respiriamo: quando siamo calmi e sereni il respiro è regolare, mentre nel momento in cui ci sentiamo ansiosi o irritati anch’esso diviene in breve tempo rapido e affannoso fino a farci iperventilare”.
→ Che cosa significa iperventilare?
Tutti ormai sanno che per nutrirsi bene non è sufficiente riempire lo stomaco con la maggior quantità possibile di cibo: ciò che occorre è che gli alimenti vengano mangiati ed assorbiti nelle moderate quantità e qualità, e assimilati bene al punto da produrre energia per il corretto funzionamento dell’organismo.Allo stesso modo non è necessario “respirare più del necessario” per raggiungere un buon equilibrio psico-fisico. In particolare, quando lo sforzo che dovremo affrontare non è fisico bensì mentale sarebbe bene non intensificare la respirazione,
perché in tal modo si viene a creare uno squilibrio tra l’entrata di ossigeno e l’uscita di anidride carbonica dall’organismo mettendolo così sotto inutili sforzi (ad esempio, come nell’ansia da prestazione).
Perciò respirare bene non significa respirare più della norma o più velocemente!
→ I benefici di una respirazione diaframmatica
Anziché respirare “di pancia”, adottare una lenta respirazione diaframmatica rappresenta una delle tecniche migliori per abbassare il nostro livello di tensione e di attivazione fisiologica, intesa sia come ansia da prestazione (es. ansia d’esame) che come ansia anticipatoria correlat alle situazioni di natura fobica (es. attacco di panico, agorafobia, fobia sociale, ecc.).
Tale respirazione risulta benefica non solo perché il movimento del diaframma ottimizza la circolazione linfatica ma anche perché in questo modo l’aria introdotta nell’organismo finisce nella parte bassa dei polmoni per cui l’ossigeno contenuto nell’aria respirata passa
dai polmoni al sangue in quantità maggiore. In alternativa, se si comincia a respirare affannosamente, gonfiando i nostri polmoni, l’apparente abbassamento dell’ansia rischia di divenire “il peggiore rimedio” tale da creare le condizioni migliori per arrivare ad iperventilare inutilmente e mettendo il fisico sotto stress.
In effetti, molti studi attinenti all’orientamento cognitivo-comportamentale, hanno validato l’esistenza di una relazione significativa tra attacco d’ansia, panico e iperventilazione.
Imparare a gestire le situazioni di natura ansiogena e fobica è possibile attraverso degli specifici esercizi di respirazione lenta, previsti e introdotti anche in varie tecniche di rilassamento tra cui il Rilassamento
Progressivo Muscolare di Jacobson, il Training Autogeno, la Mindfullness, l’Ipnosi, ovvero tecniche di natura comportamentale dell’approccio sopra citato.
(scritto da Dott.ssa Silvia Artuso 24 Ottobre
2013)
Negli stati d’ansia, al contrario, è spesso difficile identificare la causa della tensione anticipatoria e del disagio generalizzato per cui questi sentimenti possono essere sconcertanti per chi li vive.
Le relazioni tra ansia e paura possono essere complesse; l’ansia segue spesso la paura ( ad esempio di poter essere nuovamente colti da un attacco di panico), e le esperienze in cui si è sperimentata l’ansia possono a loro volta generare “la paura di un ritorno dell’ansia”.
Esistono però delle differenze soggettive nella predisposizione a provare questa emozione, in quanto nella sua percezione sono coinvolte diverse componenti biologiche, personali, educative e sociali. Il paziente ansioso che affronta una situazione potenzialmente minacciosa compie un “grossolano esame della realtà” temuta: dirige il focus dell’attenzione verso di essa, aumenta la sua sensibilità verso la persona e/o oggetto ansiogeno portandolo ad interpretare la realtà con degli “errori di ragionamento” che il
più delle volte sono responsabili della formazione degli schemi rigidi di pensiero. Inoltre, di conseguenza, attua delle strategie comportamentali apparentemente risolutorie, quali la fuga e l’evitamento.
Vi è pure un nesso significativo tra il nostro stato d’animo e il modo in cui respiriamo: quando siamo calmi e sereni il respiro è regolare, mentre nel momento in cui ci sentiamo ansiosi o irritati anch’esso diviene in breve tempo rapido e affannoso fino a farci iperventilare”.
→ Che cosa significa iperventilare?
Tutti ormai sanno che per nutrirsi bene non è sufficiente riempire lo stomaco con la maggior quantità possibile di cibo: ciò che occorre è che gli alimenti vengano mangiati ed assorbiti nelle moderate quantità e qualità, e assimilati bene al punto da produrre energia per il corretto funzionamento dell’organismo.Allo stesso modo non è necessario “respirare più del necessario” per raggiungere un buon equilibrio psico-fisico. In particolare, quando lo sforzo che dovremo affrontare non è fisico bensì mentale sarebbe bene non intensificare la respirazione,
perché in tal modo si viene a creare uno squilibrio tra l’entrata di ossigeno e l’uscita di anidride carbonica dall’organismo mettendolo così sotto inutili sforzi (ad esempio, come nell’ansia da prestazione).
Perciò respirare bene non significa respirare più della norma o più velocemente!
→ I benefici di una respirazione diaframmatica
Anziché respirare “di pancia”, adottare una lenta respirazione diaframmatica rappresenta una delle tecniche migliori per abbassare il nostro livello di tensione e di attivazione fisiologica, intesa sia come ansia da prestazione (es. ansia d’esame) che come ansia anticipatoria correlat alle situazioni di natura fobica (es. attacco di panico, agorafobia, fobia sociale, ecc.).
Tale respirazione risulta benefica non solo perché il movimento del diaframma ottimizza la circolazione linfatica ma anche perché in questo modo l’aria introdotta nell’organismo finisce nella parte bassa dei polmoni per cui l’ossigeno contenuto nell’aria respirata passa
dai polmoni al sangue in quantità maggiore. In alternativa, se si comincia a respirare affannosamente, gonfiando i nostri polmoni, l’apparente abbassamento dell’ansia rischia di divenire “il peggiore rimedio” tale da creare le condizioni migliori per arrivare ad iperventilare inutilmente e mettendo il fisico sotto stress.
In effetti, molti studi attinenti all’orientamento cognitivo-comportamentale, hanno validato l’esistenza di una relazione significativa tra attacco d’ansia, panico e iperventilazione.
Imparare a gestire le situazioni di natura ansiogena e fobica è possibile attraverso degli specifici esercizi di respirazione lenta, previsti e introdotti anche in varie tecniche di rilassamento tra cui il Rilassamento
Progressivo Muscolare di Jacobson, il Training Autogeno, la Mindfullness, l’Ipnosi, ovvero tecniche di natura comportamentale dell’approccio sopra citato.
(scritto da Dott.ssa Silvia Artuso 24 Ottobre
2013)
ASSERTIVI, NON SI NASCE MA SI DIVENTA
Il modo in cui comunichiamo ed entriamo in relazione con gli altri, il tono emotivo che caratterizza i nostri rapporti interpersonali assumono un’importanza rilevante per il nostro benessere psicologico.
Tutto questo è racchiuso nel termine “assertività” o comportamento affermativo.
Assertivo è colui che riesce ad identificare, riconoscere i propri diritti, bisogni e desideri e affermarli nel contesto sociale in cui è inserito, senza essere passivo né aggressivo verso gli altri.
Infatti, ciò che distingue l’assertivo dagli altri due comportamenti è la “scelta”, perché l’assertività è il risultato di un atto intenzionale e ragionato che si esprime con coerenza nei vari livelli della comunicazione: verbale, paraverbale e non-verbale.
Essere assertivi o affermativi significa, in pratica, assumersi la responsabilità delle proprie scelte ed azioni, guardarsi dentro mettendo anche in discussione aspetti di se e soprattutto slegarsi da modalità di interazione poco funzionale per noi e per gli altri.
Tutto ciò risulta più semplice a dirsi che a farsi…infatti assertivi non si nasce, ma si diventa nel tempo!.
Il comportamento assertivo, infatti, è il risultato di un apprendimento e di un training specifico che utilizza principi e tecniche della terapia cognitivo-comportamentale.
Il training assertivo è un passo importante per la crescita interiore e richiede un lavoro personale continuo nel tempo, un viaggio alla ricerca della serenità interiore che prevede il raggiungimento di alcuni obiettivi, tra cui:
-Aumentare la consapevolezza del proprio disagio e delle difficoltà personali;
-Riconoscere il proprio stile di comportamento;
-Costruire una buona immagine di sé, non solo nell’ambito privato ma anche nei molteplici contesti
di vita (lavorativo, sociale, ecc..);
-Incrementare l’autostima e l’autoefficacia riducendo sintomi ansiosi e depressivi;
-Saper comunicare con il mondo esterno in maniera efficace, migliorando le abilità personali;
Come già detto, il raggiungimento di questi aspetti non è compito semplice, ma nemmeno impossibile: per questo, nell’arco del training assertivo, diventa importante porsi degli obiettivi personali, graduali e concreti, focalizzati alla modificazione del legame tra pensieri, emozioni e comportamenti poco funzionali e adeguati.
Dopo la terapia i risultati evidenti riferiscono vari benefici, tra cui una riduzione dei sintomi ansiosi-depressivi, una maggiore gestione e autonomia nelle relazioni affettive nonché un incremento delle abilità sociali.
In pratica una “palestra di vita”!.
(scritto da Dott.ssa Silvia Artuso 25 Agosto 2013)
Tutto questo è racchiuso nel termine “assertività” o comportamento affermativo.
Assertivo è colui che riesce ad identificare, riconoscere i propri diritti, bisogni e desideri e affermarli nel contesto sociale in cui è inserito, senza essere passivo né aggressivo verso gli altri.
Infatti, ciò che distingue l’assertivo dagli altri due comportamenti è la “scelta”, perché l’assertività è il risultato di un atto intenzionale e ragionato che si esprime con coerenza nei vari livelli della comunicazione: verbale, paraverbale e non-verbale.
Essere assertivi o affermativi significa, in pratica, assumersi la responsabilità delle proprie scelte ed azioni, guardarsi dentro mettendo anche in discussione aspetti di se e soprattutto slegarsi da modalità di interazione poco funzionale per noi e per gli altri.
Tutto ciò risulta più semplice a dirsi che a farsi…infatti assertivi non si nasce, ma si diventa nel tempo!.
Il comportamento assertivo, infatti, è il risultato di un apprendimento e di un training specifico che utilizza principi e tecniche della terapia cognitivo-comportamentale.
Il training assertivo è un passo importante per la crescita interiore e richiede un lavoro personale continuo nel tempo, un viaggio alla ricerca della serenità interiore che prevede il raggiungimento di alcuni obiettivi, tra cui:
-Aumentare la consapevolezza del proprio disagio e delle difficoltà personali;
-Riconoscere il proprio stile di comportamento;
-Costruire una buona immagine di sé, non solo nell’ambito privato ma anche nei molteplici contesti
di vita (lavorativo, sociale, ecc..);
-Incrementare l’autostima e l’autoefficacia riducendo sintomi ansiosi e depressivi;
-Saper comunicare con il mondo esterno in maniera efficace, migliorando le abilità personali;
Come già detto, il raggiungimento di questi aspetti non è compito semplice, ma nemmeno impossibile: per questo, nell’arco del training assertivo, diventa importante porsi degli obiettivi personali, graduali e concreti, focalizzati alla modificazione del legame tra pensieri, emozioni e comportamenti poco funzionali e adeguati.
Dopo la terapia i risultati evidenti riferiscono vari benefici, tra cui una riduzione dei sintomi ansiosi-depressivi, una maggiore gestione e autonomia nelle relazioni affettive nonché un incremento delle abilità sociali.
In pratica una “palestra di vita”!.
(scritto da Dott.ssa Silvia Artuso 25 Agosto 2013)
Psicologo Montebelluna Dott.ssa Silvia Artuso © 2013 Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale
P.IVA: 04348370265, iscritta all'Albo degli Psicologi del Veneto n° 6064.
P.IVA: 04348370265, iscritta all'Albo degli Psicologi del Veneto n° 6064.